Rifiuto di pagamento della banca legittimo se la posta non iscritta in bilancio

Tribunale di Prato, sentenza n. 635 del 1.4.2011

La mancata indicazione nel bilancio di liquidazione di una società di una consistente somma di denaro depositata sul conto corrente bancario societario costituisce una grave anomalia che legittima, ed anzi seconfo il giudice di merito obbliga, l’istituto di credito presso il quale è acceso il c/c di rifiutare al liquidatore la restituzione dell’importo in questione in ottemperanza agli obblighi imposti dalla normativa di prevenzione del riciclaggio.

Lo ha stabilito il Tribunale di Prato, in composizione collegiale, con l’interessantissima sentenza n. 635/2011 che ha respinto il reclamo proposto ai sensi dell’articolo 669-terdecies Cpc, dal liquidatore (ed al contempo amministratore e socio unico) di una Srl avverso la decisione con il quale il giudice singolo presso lo stesso Tribunale aveva in prima istanza già rigettato la richiesta avanzata dal medesimo liquidatore di un provvedimento d’urgenza (ex articolo 700 c.p.c) finalizzato sempre ad ottenere la restituzione delle somme “fantasma” dall’istituto di credito.

I giudici hanno sottolineato la correttezza dell’operato della banca alla luce delle numerose incongruenze nonché dei consistenti elementi di sospetto che l’operazione in argomento destava. Il bilancio di liquidazione della Srl difatti non solo non dava conto, come detto, delle somme esistenti sul c/c societario ma evidenziava in corrispondenza di tutte le voci dell’attivo e del passivo, e conseguentemente del capitale finale di liquidazione, l’importo di “0 euro”. Il Collegio ha ritenuto non plausibile le argomentazioni del reclamante secondo cui il mancato computo nell’attivo di bilancio delle somme in questione era dovuto al fatto che dette somme erano di fatto già “impegnate” in quanto destinate ad essere utilizzate per estinguere un finanziamento precedentemente contratto dalla società. Al riguardo, i giudici sottolineano la scarsa credibilità dell’argomentazione atteso che l’importo del finanziamento da restituire era notevolmente più elevato delle somme depositate in c/c sicché anche ad ammettere che queste ultime fossero state effettivamente impiegate ad estinzione di detto finanziamento sarebbe comunque residuata un’ingente posta debitoria che avrebbe dovuto essere indicata in contabilità ed invece, come rilevato, anche le passività del bilancio di liquidazione erano pari a “0”. Le perplessità circa le giustificazioni addotte dal liquidatore erano rafforzate da altri profili di anomalia, tra i quali il fatto che il liquidatore nel richiedere alla banca la restituzione delle somme depositate in c/c ne aveva ordinato il trasferimento su un proprio conto privato acceso presso un istituto di credito estero (turco per la precisione), modalità questa che portava a dubitare del manifestato proposito di estinzione del finanziamento, tanto più se si considera che il liquidatore aveva acquistato la totalità delle quote della Srl appena prima di procedere alla “chiusura” della società. Per non dire poi dell’atteggiamento processuale sospetto tenuto dal liquidatore che in sede di reclamo, a parziale modifica della versione dedotta in primo grado, affermava che solo una parte delle somme di cui pretendeva la restituzione dalla banca sarebbero servite per pagare il debito mentre per altra parte sarebbero state utilizzate per avviare una nuova attività. Un mix di incongruenze che secondo i giudici pratesi di fatto imponevano all’istituto di credito di rifiutare l’esecuzione dell’operazione richiesta dal liquidatore in quanto potenzialmente sospettabile di non essere “trasparente” ai fini della normativa antiriciclaggio.

A tale ultimo riguardo, giova ricordare – come correttamente fa il Collegio – che per effetto del recepimento della terza direttiva antiriciclaggio avvenuta con il Dlgs n. 231/2007, il nostro ordinamento pone ora a carico di taluni soggetti, tra i quali gli operatori bancari e finanziari, prescrizioni che si innestano e vanno a completare quelle di mera identificazione prima applicabili nella vigenza della legge 197/1991. Rispetto al sistema previgente, il decreto 231 ha introdotto obblighi di “adeguata verifica” della clientela. Si tratta in sostanza di obblighi ad attuazione progressiva, che si sviluppano mediante l’esecuzione delle quattro differenti attività delineate nell’art. 18 del ripetuto Dlgs n. 231 e cioè: 1. identificazione del cliente e verifica della sua identità sulla base di documenti, dati o informazioni ottenuti da una fonte affidabile e indipendente; 2. individuazione e verifica dell’identità del titolare effettivo delle transazioni; 3. raccolta di informazioni sullo scopo e sulla natura del rapporto continuativo o della prestazione professionale; 4. monitoraggio costante del rapporto o della prestazione professionale, in modo da verificare che le transazioni concluse siano compatibili con la conoscenza che si ha del proprio cliente, delle sue attività commerciali e del suo profilo di rischio, avendo riguardo, se necessario, all’origine dei fondi. Tutto ciò, in omaggio ai principi generali che hanno ispirato la più recente disciplina comunitaria e nazionale in materia antiriciclaggio, ivi compresa la nuova procedura di identificazione, che sono quelli del risk based approach e del know your customer, che prefigurano obblighi di approfondimento “a geometria variabile” in funzione della tipologia di cliente e dell’operazione richiesta nonché del suo livello di rischiosità.

Lo stesso Dlgs 231 (emendato successivamente dal Dlgs n. 151/2009) ha introdotto anche un vero e proprio “obbligo di astensione” che si sostanzia, a norma dell’art. 23, nel dovere per tutti i soggetti destinatari della normativa di astenersi dall’eseguire l’operazione quando non sono in grado di espletare le attività di adeguata verifica della clientela (ad esempio, perché il cliente non fornisce le informazioni a tal fine necessarie) ovvero sospettano che una determinata operazione sia correlata a fenomeni di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo. Più precisamente, in tali ultime evenienze, gli enti e le persone soggette agli obblighi antiriciclaggio, prima di effettuare la prevista segnalazione di operazione sospetta all’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia, si astengono dall’eseguire l’operazione per consentire all’Uif di esercitare il potere di sospensione dell’operazione (per un massimo di cinque giorni lavorativi) di cui all’articolo 6, comma 7, lett. c), del decreto medesimo; allorché però l’astensione non è possibile (poiché sussiste un obbligo normativo di ricevere l’atto, l’operazione per sua natura non può essere rinviata, o vi è il rischio di ostacolare le indagini), permane comunque l’obbligo di immediata segnalazione di operazione sospetta.

Pertanto nella fattispecie esaminata, come sottolineato dai giudici pratesi, il rifiuto della banca di restituire le somme al liquidatore non configurava un provvedimento di sequestro (illegittimamente) adottato da un privato, ma costituiva piuttosto una mera astensione dall’esecuzione di operazioni connesse ad obbligazioni contrattuali normativamente prevista ed autorizzata (ed anzi, imposta), parametrata a peculiari esigenze di prevenzione di fenomeni criminosi di vasta portata